giovedì 29 giugno 2006

L'apparenza

Quale di queste due figure è più grande?


Sono uguali.

Io le ho stampate e le ho sovrapposte!

mercoledì 28 giugno 2006

Com'è povera l'apparenza!

Cosa significa?

Significa che si giudica spesso in base alle apparenze - non necessariamente in modo colpevole o maligno - convinti di avere un quadro completo e ampio.
Si analizza, si seziona, si è convinti di poter stabilire che una persona è rigida o è immatura, è chiusa o superficiale, è anaffettiva o labile...

Si dice: l'apparenza inganna.
Non basta.

L'apparenza è povera: povera di idee, povera di conoscenza, povera di profondità, povera di tolleranza, povera di speranza, povera di verità.

martedì 27 giugno 2006

Il primo volo

Il tema dell'abbandono e del distacco è così profondo che non si finisce mai di sondarne le profondità...

Qui c'è il link ad una intervista a Gianna Schelotto, che consiglio di leggere.
Io sono rimasto colpito già dalla citazione del titolo di un suo libro "Distacchi e altri addii. Quando separarsi fa bene".

Allora, ci sono distacchi che fanno bene! Non dice che basta sopportare, accettare, sublimare, elaborare, e così via, ma che ci sono situazioni in cui "separarsi fa bene".


Non è un incitamento alla separazione!

Ho un ricordo. La pagina del sussidiario delle elementari.
L'immagine di un grande albero, di un nido di rondini e del loro primo volo. Il testo spiegava che mamma rondine, sa quand'è il momento di far spiccare il volo al suo rondinino, e lo spinge, lo accompagna ma lo fa andare.
E' un distacco che fa bene, senza il quale non si completa la crescita.
Si capisce, gli uomini non sono rondini e il paragone regge finchè regge.


Dietro la paura dell'abbandono c'è la paura della solitudine, ma anche qualcosa di più profondo: la paura di non esistere. Quando siamo amati da qualcuno abbiamo anche la conferma della nostra esistenza: la persona che ci ama ci fa sentire importanti ed amati, ma prima di tutto ci fa sentire che ci siamo.
Nel momento in cui un rapporto finisce ci ritroviamo piccoli e di poco valore, ci sembra di non esistere o di non valere.

giovedì 22 giugno 2006

...dopo un anno

Giorno più, giorno meno, "Come si cambia" ha percorso il suo primo anno.

Il primo post risulta essere del 22 Giugno 2005, in realtà ricordo di aver manipolato le date per dare un ordinamento a me gradito e inserire scritti che avevo già prodotto e che conservavo nel mio pc. Il primo post reale per il blog è "la foglia nascosta nella foresta" (che è poi anche il titolo un altro mio blog).
Per celebrare questa ricorrenza, con un'ardita opera di scissione interiore, provo ad auto-intervistarmi.

Q: Ti sembra che questo blog abbia mantenuto le sue promesse?
A: Sì! Anche oltre le mie stesse aspettative. Mi sembra di aver messo delle buone tracce per documentare il cambiamento che giorno dopo giorno si centellina nella mia vita interiore.

Q: Sembra esserci stato un largo spazio ai ricordi d'infanzia...
A: E' vero, avevo bisogno, e la necessità è ancora forte, di recuperare il passato. Voglio dire, i cambiamenti che erano avvenuti o si stavano consolidando. Ci sono radici lontane, nell'oggi.

Q: E i sogni?
A: I sogni sono una parte importante del mio blog. Sono la lettura istantanea delle energie interiori, mi suggeriscono dove punta il mio "cuore", inteso come nucleo centrale delle mie emozioni, e quindi la direzione delle mie passioni, dei desideri, delle paure. I sogni mi aiutano a conoscermi.

Q: Il blog è la trasposizione di un tuo diario?
A: No, non ho avuto un diario, salvo brevissimi periodi. Comunque non di recente. Ho un libretto dove annoto tutte le mattine il ricordo dei sogni della notte. Ma sono appunti spesso incongruenti, parte di questi appunti diventa lo spunto per un nuovo post.

Q: Ti aspettavi un numero di lettori più o meno alto?
A: Quando sono partito, non ho pensato alla quantità dei lettori; avevo in mente di raggiungere e continuare un discorso cominciato con qualcuno; il blog mi permetteva di essere propositivo in questo dialogo ma non invadente. L'idea poi era quella che descrivo in uno dei primi post: "Qual è il posto migliore per nascondere una foglia? La foresta. Perchè si camuffa con miliardi di altre foglie". Teoricamente se il mio blog fosse ben nascosto nella foresta digitale, non dovrebbe aver alcun lettore (oltre a quelli ai quali fornisco la mappa per trovare la mia foglia).

Q: Poi anche tu ti sei lasciato prendere dal meccanismo...
A: Un po' è vero. Viene voglia di contare quante entrate e quali sono le pagine più lette, di veder crescere il grafico giorno per giorno. Ma passato il momento della curiosità devo dire che ha prevalso, assolutamente, la soddisfazione di riuscire a scrivere cose "che ti muovono dentro". Poi quando qualcuno le condivide con un commento o semplicemente verifichi che una certa pagina è molto cliccata capisci di aver toccato un tasto che va in risonanza con altre persone.

Q: Qualche annotazione particolare?
A: Sono rimasto stupito del numero di contatti avuto su due post. "Vuoi ballare con me?" e "L'amore al tempo del colera"; ma non so se c'è una spiegazione logica. Ho citato altri film o libri più famosi, ma su questi due sembra che i motori di ricerca privilegino il mio sito.

Q: Ci sono cose non dette (scritte)?
A: Assolutamente sì, ci mancherebbe altro! La sfera personale include anche rabbie, fantasie, giudizi, intimità che devono rimanere nascoste (non nella foresta, ma nella propria mente). Comunicarle a chi, come, quando, non può essere oggetto di tecnologia.

Q: Obiettivi per il futuro?
A: Continuare, ed evitare inquinamenti troppo culturali. Vorrei che il mio blog rimanesse un "luogo dell'istinto", penso che solo così potrà assolvere allo scopo per cui è nato. Penso che affiancherò invece altri blog dove depositare altre idee, riflessioni, immagini. Intanto sono contento di aver spinto qualcuno (MariaTeresa e Carlo) a lavorare su un proprio blog e di aver stretto con Claudio un patto di "editazione" con un blog dei suoi pensieri&parole.

mercoledì 21 giugno 2006

Amore che va, amore che viene, amore che sta!

Quando si dice che la famiglia è in crisi e si rimane su un livello superficiale a lamentarsi, si fa solo un po' di sociologia di basso profilo.
Diverso è quando la crisi tocca qualcuno che conosci tra amici e colleghi.

Ti senti dire: "Lui vorrebbe continuare, ma io ho preso coscienza che è stata un'illusione, un errore, non siamo fatti uno per l'altro, non voglio più pagare questo prezzo all'infelicità, ho diritto alla mia vita".

Cosa puoi rispondere di sensato? Quale logica sociologica puoi applicare? A quale principio morale o religioso vuoi appigliarti?

In questi ultimi anni sono state messe a punto diverse tecniche per sostenere le famiglie in crisi. Questa persona, che ha accettato di aderire ad una di queste proposte, continuava:
"Non posso credere che l'applicazione di una tecnica possa consentire di "ritrovarsi". In realtà l'incontro fra noi non c'è mai stato. Cosa serve, focalizzare un argomento, scriversi delle lettere, imparare a parlarsi con rispetto, se l'errore è stato proprio nello scegliersi?"

E tu hai un bel pensare e dire, sui figli, sull'indissolubilità, sull'amore come donazione, sulla responsabilità...Ti senti come un distributore di buoni ed equilibrati consigli, un dispensatore di regole, mentre dall'altra parte c'è un dramma interiore, c'è un subbuglio di idee, c'è una incaponita volontà di mollare e riprovare con qualcun altro. C'è la convinzione di aver trovato l'Amore, la Passione, la certezza che dietro l'angolo c'è -non la felicità, non è una sprovveduta - ma la normalità di una coppia, sì.

"Beh! fai questo tentativo di -ritrovarsi- fino in fondo" e stai andando dietro ad una intuizione che senti profondamente vera.

Lo pensi e glielo dici: "Quando si è adolescenti -perlomeno per me era così- si pensa: come farò a trovare la donna/l'uomo della mia vita? Come farò a riconoscerla fra la folla. E se fosse a Taipei o in un paesino sperduto dell'Abruzzo, o a Milano?
Poi capita di innamorarsi e se va tutto bene, lo si dice con convinzione: <Ecco ho incontrato la donna/l'uomo della mia vita>.
Ma in che senso questa è una verità? Significa che poteva funzionare solo con lei/lui?

La mia risposta è piuttosto pragmatica. Penso che avrei potuto innamorarmi di altre migliaia di ragazze, e vivere con loro un'esperienza altrettanto positiva di quella che sto vivendo e penso che la stessa cosa sia applicabile anche a mia moglie nei confronti di altri uomini. E penso che sia generalizzabile a tutti e tutte.
Però fra tutte quelle possibili ho incontato lei, e da quel momento non è stata "una qualunque"; è quella che mi ha addomesticato e che io ho addomesticato".
Ci si ama, si vuole l'altra per sè e ci si vuole dare all'altra per sempre, ci si accoglie nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia. Si cade e ci si aspetta ora uno ora l'altra. Si sceglie di volersi amare anche nei periodi di aridità, di indifferenza. E potrebbe succedere che negli anni successivi si incroci qualcuna o qualcuno con la quale si sarebbe potuto vivere un'amore altrettanto efficace, ma allora, non si va dietro a questa fantasia: per responsabilità, per equilibrio, per stabilità, per fiducia...perchè ci si è addomesticati".

"Allora insisti con questa tecnica.", finisco, "Perchè non aprire gli occhi oggi e guardare il tuo compagno dandoti questa chance. Se anche avessi sbagliato tutto, cinque, dieci anni fa, perchè oggi non potresti innamorarti di lui? Perchè non guardarlo con occhi nuovi? Perchè non fare tesoro di questi anni passati insieme, visto che anche lui è cosciente degli errori, dei limiti, delle incapacità? Non è un buon punto di partenza? Sei proprio certa che l'amore non c'è mai stato, che l'illusione non sia aver rimosso quell'attrazione iniziale?
Vale la pena provarci con onestà interiore prima di avventurarsi in un'altra storia".

(L'immagine: Les amants di Magritte)

giovedì 15 giugno 2006

La donna nera

Nella stanza, adesso vuota, aleggia ancora la sua presenza oscura. La donna nera. La strega. Nell'aria la sensazione solida del suo passaggio, dei suoi sentimenti malvagi, mortiferi.
(Sogno 11/6)

Mi sveglio.

Mi percorre un lungo brivido, dalla schiena, lungo le braccia, sulla testa. Richiudo gli occhi e provo ancora la stessa paura; di nuovo sento rizzare, come un gatto, i peli che non ho. Si ripete così, tre, quattro volte.
Mi alzo, vado in bagno, torno a letto.

Ho quasi cinquantatre anni eppure per un minuto mi sono sentito impaurito e indifeso come un bambino. No, non come "un" bambino", ma come io da bambino. Che buffo, che sensazione di sorpresa! Venire a contatto con questa verità, che pure si conosce, non a livello di conoscenza intellettuale, ma come esperienza diretta.
Per un attimo, ma proprio solo per un attimo, sentire vivi e presenti in sè, l'adulto e il bambino. Si affiancano, si guardano, si riconoscono, si capiscono, si sorridono; per poi riaccomodarsi ognuno nella sfera che compete loro.

La donna nera!
Poche notti prima avevo sognato una vecchia signora che guarda passare per strada una manifestazione. Malignamente desiderava lo scontro con le forze dell'ordine. Desiderava una provocazione qualunque, per gustarsi la lotta. Ed io, che avevo intuito tutto, cercavo di rimediare, avvertivo i manifestanti, che altri non erano che dei bambini con le bandiere arancione, di non cadere nella trappola. E ne prendevo uno per mano, anche se lui scalciava e inveiva contro di me e gli dicevo, "Vieni, torniamo a casa", e lo riportavo dalla sua mamma.
(Sogno 8/6)

Evidentemente c'è una donna nera ma anche una donna bianca:
strega e fata, odio e amore, abbandono e protezione, risentimento e gratitudine, dipendenza e autonomia.

C'è una figlia che si sposa e lascierà casa fra meno di un mese.
Per chi vuol vedere, c'è da vedere. Ai miei occhi tutte le relazioni in famiglia si stanno "muovendo".
Mamma-figlia; fratellomaggiore-sorella; sorella-fratellominore; mamma-papà; papà-figlia; papà-figlimaschi.
Come un lento magma alimentato dal vulcano che erutta lava
(sogno del 14/6),
le forze si spostano.
Ci sono rimasugli di episodi non risolti, speranze di chiarimenti, difese da mantenere e nuove aperture impreviste, sentimenti non espressi.


Si cercano nuovi equilibri, stabili.

martedì 13 giugno 2006

Ma allora che ci guadagni?

Quel pomeriggio di settembre, sapevo che l'avrei rivista. C'era la finale del torneo di ping-pong al bar dell'Acli.
Erano passati quindici giorni dall'ultima volta che ci eravamo incontrati. Io studiavo, lì, in campagna, ospite di un amico, uno degli ultimi esami e, nelle pause, lei spesso arrivava per scambiare qualche parola; discorsi anche profondi; qualche volta si leggeva insieme qualche pagina del Vangelo; spesso una risata schietta e aperta con gli occhi ridenti che si chiudevano come due fessure; una semplicità disarmante; qualche canzone intonata insieme dietro la chitarra di un amico; la sera si giocava radunandosi con altri giovani fino a tarda notte.
Poi ero tornato a casa, ma quella ragazza così magra e così alta, cioè voglio dire, alta più di me, tanto che gli amici ci avrebbero poi chiamato l'alticolo "il", aveva sconvolto i miei programmi, mi ero innamorato... e il sentimento dominante era lo stupore.

Incoraggiato da un amico tanto caro quanto petulante (così lo giudicavo in quel momento, perchè continuava a dirmi "vai! Su vai, cosa aspetti?"), mi decisi.

"Vieni, devo parlarti, ti offro da bere".

Sul tavolinetto rotondo del bar erano stati serviti una cocacola e un'acqua frizzante che cominciavano a svuotarsi.
"Sai, ho passato quindici giorni bellissimi, qui...saranno indimenticabili perchè, mi sono innamorato di MariaTeresa".
Non gli dissi: "Mi sono innamorato di te", ma "Mi sono innamorato di MariaTeresa", come se parlassi di qualcun'altra. E infatti ci furono alcuni secondi di silenzio completo. Stupore!

"E' stato bello, ma non mi aspettavo...non sospettavo, non pensavo..." furono all'incirca le prime parole di lei.

Poi il primo appuntamento, una passeggiata sul lungomare di Recco, un gelato colorato e rinfrescante e dalla tasca tirai fuori un libretto. Era "Il piccolo Principe" di Antoine de Saint-Exupéry.
Avevo bisogno di un brano delicato che mi aiutasse a comunicare quello che provavo e che pure tracciasse una strada, la nostra.
Il dialogo fra la volpe e il piccolo principe simboleggiava bene quel momento in cui ci accostavamo uno all'altra, per addomesticarci a vicenda.

"...in quel momento apparve la volpe: "Buon giorno".
"Buon giorno" disse gentilmente il piccolo principe voltandosi: ma non vide nessuno.
"Sono qui", disse la voce, "...sotto il melo".
"Chi sei?" chiese il piccolo principe, "Sono una volpe", disse la volpe.
"Vieni a giocare con me?", le propose il piccolo principe "sono così triste...".
"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah, scusa!", fece il piccolo principe.
"Che cosa vuol dire addomesticare?"
"E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami".
"Creare di legami?". "Certo", disse la volpe, "tu, fino ad ora, per me non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale acentomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo. (...)
Se tu mi addomestichi la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo mi farà uscire dalla tana come una musica.
E poi guarda! Vedi laggiù in fondo dei campi di grano? Io non mangio il pane, e per me il grano è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai i capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano..."
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: "Per favore ... addomesticami", disse.
"Volentieri, che bisogna fare?", domandò il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino...".
Il piccolo principe ritornò l'indomani. "Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe. "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincio ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... ci vogliono i riti".
"Che cos'è un rito?", disse il piccolo principe. "Anche questa è una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe". E' quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore"

Così il piccolo principe addomesticò la volpe ... E quando l'ora della partenza del piccolo principe fu vicina: "Ah!", disse la volpe, "... piangerò".
"La colpa è tua", disse il piccolo principe, "io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi e che diventassimo amici...".
"E' vero", disse la volpe.
"Ma sapevi che avresti pianto!", disse il piccolo principe.
"Certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano".



sabato 10 giugno 2006

Suono di clacson

Ieri notte mentre tornavo verso casa con un amico, ho sentito provenire un suono di clacson dalle strade principali di Sampierdarena. "Ascolta", dico.
Era un suono strombazzante, festoso, ripetuto e insistente, ampio e sguaiato.
Ci siamo guardati e il mio amico ha commentato: "Avrà giocato il Genoa, saranno i tifosi in festa per la promozione".
Ci sbagliavamo, ha giocato l'Ecuador ai mondiali di calcio e ha vinto, ci sono i tifosi in festa.


Segni dei tempi che cambiano, di un quartiere dove la comunità sudamericana è più visibile di quella genovese, di quella italiana.

venerdì 9 giugno 2006

Timidezza

Ieri sono stato relatore in una conferenza dal titolo un po' complicato per addetti ai lavori che non sto a ripetere. Ma in sintesi si parlava di "informatica e strategie aziendali".
Il contesto dell'auditorio era un club molto esclusivo e qualificato di personalità del mondo marittimo genovese.
Dai riscontri e dalle strette di mano, pare sia andata molto bene e che il mio intervento sia stato piuttosto apprezzato.
In effetti, superato l'ultimo batticuore, giusto pochi secondi prima dell'inizio, ho subito trovato un feeling con la sala e le parole si scioglievano fluide e convincenti.

Naturalmente il mio lavoro mi ha portato molto spesso a parlare nel contesto di riunioni e anche in occasioni pubbliche, ma nonostante tutto...

...meditavo sulla mia timidezza.

Si perchè io "Sono un ragazzo timido".

Quando ero bambino, mi vergognavo perfino ad entrare in panetteria o in drogheria per comprare. Mi sentivo al centro dell'attenzione di tutti i presenti e credevo di non essere all'altezza, mi dimenticavo quello che dovevo dire e cercavo disperatamente di ripeterlo in continuazione mentalmente. Le persone che erano davanti a me e che stavano già elencando la loro spesa mi confondevano. Ad un certo punto mi ritrovavo a ripetere mentalmente un elenco che non era più quello della mamma. Avevo timore di non capire quando sarebbe stato il mio turno, non riuscivo più a contare i soldi, un vero disastro, il panico.
Con queste premesse come avrebbe potuto essere l'approccio con il mondo delle ragazze, nell'adolescenza? Assolutamente goffo e inibito.

Più avanti, durante il periodo universitario e oltre, ho aderito con tanto entusiasmo a un gruppo giovanile che mi aiutò indirettamente a superare questi blocchi. Le occasioni per avere contatti sociali con i coetanei si moltiplicavano e c'erano degli Ideali che si consolidavano e che volevo trasmettere ad altri.
Poi il contatto con il palco grazie alla band musicale dove io suonavo il flauto e cantavo; ma non solo: spesso si organizzavano anche spettacoli con mimi, recitazione, immagini, si raccontavano esperienze.

Ho letto da qualche parte che spesso i più timidi, quando salgono sul palco, si trasformano e danno sfoggio di naturalezza; pare che molti cantanti e artisti in genere rientrino in questo gruppo di persone.

Forse è stato così anche per me, perchè io rimango timido.
O forse si cambia.

( Se clicchi Qui trovi una definizione di timidezza esagerata)

lunedì 5 giugno 2006

Frankenstein

Ho letto Frankenstein, di Mary Shelley

Ho dovuto dare un taglio al mio budget sull'acquisto di libri nuovi, ma la conseguenza non è stata smettere di leggere, piuttosto ho avviato una profonda escursione nelle librerie della casa e ho trovato decine di titoli che non ho ancora letto o che vorrei rileggere di nuovo.

Per esempio il Frankenstein mi ha lasciato dentro varie considerazioni.

A cominciare dal tema del progresso scientifico/tecnologico che non è in grado di valutare le conseguenze etiche e sociali delle proprie scoperte.
Drammaticamente così, stanno le cose nelle applicazioni sulle manipolazioni del DNA e nelle tecniche legate all'embrione.

Ma dopo aver biasimato per buona parte del libro la superficialità colpevole dello scienziato che si accinge a creare una "nuova creatura" con la stessa leggerezza con cui un bambino gioca al "meccano", ci si trova di fronte al fatto compiuto: il mostro!

Subito ci si accorge quanto la sua definizione sia soggettiva, parziale, scorretta, inadeguata, ingiusta.
In realtà la nuova creatura ha come suo unico scopo quello di integrarsi, quello di poter esprimere l'amore che prova, di sperimentare l' essere amato, di coltivare la sua tenera sensibilità, di entrare in contatto vitale con il suo "creatore".
Si diventa mostri con lui e lo si vorrebbe accompagnare per mano nel convivere sociale degli altri uomini.

Putroppo, sperimentiamo ogni giorno quanto sia difficile accettare la diversità.

E non c'è bisogno di andare troppo in là e scomodare un differente colore della pelle, o la provenienza (sembra che i punti cardinali sud ed est siano dannati).
Non c'è bisogno di scomodare la religione di appartenenza e neppure il ceto sociale.
Mi sentirei di sfidare qualunque persona a "lanciare la prima pietra" se dentro se stesso non ha mai provato il desiderio allontanare da sè un mostro. Perchè un presunto "mostro" ognuno di noi lo ospita nel proprio inconscio.

Frankenstein infine prende coscienza che la sua diversità non è un problema risolvibile, sperimenta l'impossibilità a realizzare i suoi sogni e la logica conseguenza di tutto ciò diventa la sistematica applicazione di violenze e crudeltà.

Lo scienziato paga in modo atroce i suoi errori con la mutilazione di tutti i suoi affetti. Ma non si può non perdonarlo: non perchè diventa vittima della sua creatura, non perchè è un uomo rispettabile che coltiva nobili sentimenti e modi garbati, ma perchè la sua debolezza ci appartiene come genere umano. Perchè, comunque, si comprende che la convivenza con il mostro non si risolve con una migliore pianificazione, con più approfonditi studi, con considerazioni esageratamente razionali.

Mi viene in mente il film "The Elephant man". Il regista saggiamente non presenta allo spettatore il mostro in un'unica sequenza, ci abitua lentamente alla sua esistenza, ci lascia crescere alla sua presenza, ci abitua alle sue ragioni, finchè guardarlo in faccia diventa un desiderio e ci appare insignficante che il suo aspetto così diverso.

Questo è l'approccio alla tolleranza.