martedì 9 febbraio 2016

Fare silenzio


Quando frequentavo i primi anni delle elementari, se il maestro doveva assentarsi, chiamava il capo-classe alla lavagna, poi con un segno del gesso la divideva in due parti. Da quel momento subentrava la consegna del silenzio a mani conserte. 
L'occhio del capo-classe, indagatore, scrutava fra i banchi e poi scriveva a sinistra i bravi e a destra i cattivi: quelli che il silenzio non lo rispettavano.

Sì, perché dire silenzio è dire poco. Il silenzio va qualificato per potergli dare un nome.
C'è un silenzio che opprime e uno che libera.
C'è un silenzio che esprime solitudine ma anche uno che perdona senza spendere parole..
E se abbiamo sperimentato il silenzio che allontana, conosciamo anche quello che rappacifica.
Col silenzio si può giudicare, mostrare indifferenza, emettere un verdetto e condannare oppure si può accogliere e dimostrare tutto l'amore di cui siamo capaci.

Ma c'è un silenzio speciale: quello che dà spazio ed espande la nostra percezione della realtà; si potrebbe chiamare il silenzio eloquente.
A parlare allora è il tutto il corpo; lo sguardo, la posizione del corpo e suoi segnali, il contatto di una mano, il profumo della vicinanza, il suono del respiro che ci fa sentire vivi, una voce: quella dell'altro, non più coperta dalla nostra.

Temo di non aver ancora imparato a fare silenzio.


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