mercoledì 31 maggio 2006

La casetta rossa

La casetta rossa di cui scrivo non è quella - in Canada - ma la casa in cui ho abitato con MariaTeresa quando ci siamo sposati.
Il nome è dovuto alla tinta di color rosso della facciata, una tonalità tipica della Liguria.
Per arrivarci bisognava arrancare su per una stretta, ripida e un po' sconnessa mattonata (creuza) che porta al cosìdetto Promontorio di Sampierdarena e ad una graziosa chiesa con campanile ottogonale. Quando si trattava di portare su le borse della spesa o spingere MariaTeresa con il pancione, occorreva fare ricorso a tutte le riserve energetiche.
Il suo aspetto ricordava "altri tempi", quando quella zona era immersa nel verde della collina e la casa era abitata da un pittore genovese, Angelo Vernazza.
Passando dall'alto della collina si poteva anche arrivare, se proprio era indispensabile, con una piccola utilitaria o un'ape, giusto per portare un mobile o in caso di emergenza. Comunque, allora, nè io nè Mariateresa avevamo la patente ...
Un portone verde, sormontato da una madonnina, immetteva in un giardino dominato da una enorme magnolia che in primavera emanava un profumo così intenso da provocare un leggero stordimento; dal giardino si accedeva ai quattro appartamenti in cui era divisa la costruzione.
Al nostro si arrivava tramite un'altra ampia scala che saliva al piano superiore, dove una scultura che rappresentava la testa di una donna, faceva bella mostra di sè sopra la porta d'ingresso.

Il cuore della casa era rappresentato dal grosso soggiorno con luminose pareti e soffitto a volta dal quale si aprivano a raggera le altre piccole stanze e un ampio terrazzo semicircolare.
Pur essendo oramai la casa circondata da enormi e anonimi palazzi costruiti selvaggiamente negli anni 60' abitarci era estremamente piacevole perchè la casa aveva una sua magia ma soprattutto perchè era la nostra prima casa, quella che ospitava la nuova famiglia che avevamo formato, che raccoglieva il nostro giovanile ingenuo, genuino entusiasmo.

giovedì 25 maggio 2006

Le stanze dei figli

(Sogno del 16/5)

Qualche giorno fa ho sognato che, dovendo Marianna andare via di casa (e in effetti si sposa tra meno di due mesi), ci chiedeva di non smantellare completamente la sua stanza ma di conservare alcuni mobili a cui era affezionata: un tavolino, una sedia e altri piccoli scaffali.

Come in tutti i sogni le situazioni erano contraddittorie e illogiche. Così nostra figlia aveva sì la sua stanza personale ma contemporaneamente ne condivideva una con suo fratello Antonio. Poi a sorpresa si scopriva, camuffata contro una parete, una nuova porta che conduceva in un ampio locale sconosciuto ricolmo di cianfrusaglie e di polvere; una stanza che avevamo avuto sempre a disposizione senza averne consapevolezza.
"Che peccato avremmo potuta utilizzarla come stanza di servizio, metterci il computer o farne la stireria o l'asciugatoio..."
Il sogno mi ha richiamato la storia delle "stanze dei figli", perchè di figli ne abbiamo cresciuti tre e l'argomento, in famiglia, è sempre stato piuttosto in evidenza.

Fatto sta che un bel giorno ci siamo ritrovati a dover ripensare gli spazi e, tenendo conto che con noi abitava pure il nonno Toledo, abbiamo rimescolato le carte e la stanza più ampia è stata attrezzata per ospitare insieme Marianna, Benedetto ed Antonio.
Per un po' si è stabilito un equilibrio e quel periodo è contraddistinto da una quantità enorme di aneddoti che i ragazzi ci raccontano perchè la combriccola, a porte chiuse, ne combinava di tutti i colori e, pare, che la vittima preferita fosse il piccolo Antonio, che veniva amorevolmente "seviziato" dai fratelli.
Ma si sa, si cresce. La ragazza diventava adolescente e la condivisione degli spazi con i due maschi cominciava ad essere vissuta come una sofferenza.
La crisi si superò quando nel caseggiato si liberò un appartamento in cui i due nonni: Luigi e Toledo, andarono a vivere insieme. L'idea fu veramente risolutiva: ora Marianna aveva la sua stanza e i due maschi stavano insieme.
Altro tempo di stabilità e poi la nuova realtà: anche Benedetto cresce, ci sono sei anni di differenza con Antonio, ogni sera i due litigano molto vivacemente, si accusano di dispetti reciproci, qualche volta passano alle vie di fatto, c'è un po' di insofferenza. Ci vorrebbe un'altra stanza, ma stavolta l'unica soluzione è traslocare in una nuova casa.
Oh! Finalmente una stanza per ogni figlio, sembra tutto risolto; salvo scoprire che il più piccolo ha sofferto questo cambiamento; rimane legato al vecchio schema, nella sua nuova stanza si sente isolato, sperduto; sorge qualche problema notturno, segnale di un disagio. Riunione di famiglia, cosa fare? Marianna cede la sua stanza, la più vicina alla camera da letto dei genitori, al fratellino, che, sentendosi più protetto, lentamente si abitua.
Ora ci accingiamo a vivere la parabola inversa. A Luglio, con il matrimonio di Dario e Marianna, la casa perderà un abitante. Cosa fare della sua stanza? Quanto aspettare prima di mettere mano a una revisione degli spazi e degli usi?....

Naturalmente penso che il sogno abbia una lettura più profonda e sia il segnale di un movimento che avviene negli "spazi simbolici" che regolano la relazione fra persone che si amano. Un figlio che va via di casa è, psicologicamente, un evento tanto naturale quanto straordinario per entrambe le parti.
Il rapporto genitore-figlio è come un cerchio che si deve chiudere: ci sono strappi e ricuciture, movimenti di andata ma anche di ritorno, finchè gli uni e l'altro non raggiungono la piena maturità di persone adulte.

(il quadro rappresenta "La stanza" di Van Gogh esposto al Musée D'Orsay di Parigi)

domenica 21 maggio 2006

Un due tre stella!

Un... due... tre stella!
Prima di tutto bisogna trovare chi "sta sotto". In genere si fa con una conta (io consiglio "Uccellin che vien dal mare quante penne può portare può portare trentatre, uno due tre a uscire tocca a te").
Chi "esce" conduce il gioco (in qualche versione è chiamato "la fata") . Tutti gli altri (bambini?) vengono allineati a una distanza concordata (diciamo dieci, venti metri); il capogioco gira loro le spalle e attende qualche istante. In questo intervallo di tempo i concorrenti cominciano ad avanzare con quanto più coraggio dispongono con lo scopo di arrivare per primi alla linea d'arrivo (o a toccare il capogioco); appena "la fata" dichiara: " un, due... tre stella!", si gira di scatto e tutti cercano di immobilizzarsi.
Chi viene sorpreso ancora in movimento viene rispedito inesorabilmente alla linea di partenza. E fermi bisogna rimanerci, a fare "le belle statuine" (altro nome del gioco), finchè il capogioco non si volta nuovamente permettendo di avanzare di nuovo e così via. Naturalmente la difficoltà sta anche nel rimanere immobili in strane posizioni di precario equilibrio e perchè "la fata" può cercare con parole, versi e boccacce di provocare un movimento indesiderato.
Infine, attenzione: il capogioco è anche giudice insindacabile e qualche volta anche parziale.
Se l'avanzamento verso il traguardo è troppo evidende, potrebbe inventarsi di avervi visto muovere e dovrete tornare indietro. La stessa cosa succederà se gli siete antipatico.
Il gioco assicura movimentate contestazioni e sospensioni che verranno ufficializzate alzando un braccio e gridando "pugno!"
Il "pugno" crea una zona e un tempo franco, in cui le regole e la competizione sono sospese, quindi è permesso muoversi;

è il tempo della ricerca di un nuovo equilibrio relazionale fra i partecipanti e può concludersi ripartendo dallo stesso punto o ricominciando tutto da capo.

Un due tre stella: l'importante è non lasciarsi scoprire
Un due tre stella: se non rischi, non vinci
Un due tre stella: non farti troppi nemici
Un due tre stella: se non mi fai vincere alzo il pugno e butto tutto all'aria
Un due tre stella: quando tocca a me te la faccio pagare
Un due tre stella: io sono il più svelto
Un due tre stella: non riuscirò mai a vincere
Un due tre stella: sono una bella statuina ma appena ti giri mi libero
Un due tre stella: ora mi giro in anticipo
Un due tre stella: ieri non mi ha fatto assaggiare la merenda
Un due tre stella: se mi squalifica non gioco più
Un due tre stella...

venerdì 19 maggio 2006

La minestra e l'usignolo

Come tanti bambini anch'io non amavo la minestra e ogni volta che la mamma la preparava si apriva una lunga trattativa fatta di rifiuti, di lusinghe, di minacce.
"La mangio se mi racconti una favola".
"No, la favola oggi non ho voglia di contarla!"
"Allora niente minestra, fa schifo, raccontami la favola".
E si andava avanti ancora un po' fra insistenza e rifiuto, insistenza e rifiuto. Poi la mamma sembrava cedere, ed io mi convincevo di vincere la sfida. A quel punto c'era un'altra questione fondamentale da chiarire.
"Però non mi devi raccontare sempre la stessa. No quella dell'uccellino".
"No, questa è diversa, ascolta".

Ogni volta, regolarmente, mi lasciavo convincere a mangiare.
Ed effettivamente le favole iniziavano ogni volta in modo diverso: re, principi, rospi si alternavano ad ogni cucchiaiata con quella fantasia popolare e con la parlantina tipica delle donne siciliane. Boschi, posti incantati e orchi, ed io mi ero dimenticato della minestra, rapito dalla storia.
Ma infine arrivava l'utimo boccone: in quel momento la faccia della mamma cambiava e con una espressione furbetta e maliziosa, la sua storia virava di colpo per far comparire il cacciatore con il fucile che braccava un uccellino.
Non c'era niente da fare, come ogni volta ero stato fregato, la minestra era tutta nel mio stomaco e la mamma completava il suo racconto con l'immancabile...

usignolu ccu beccu giallu, u pettu rrussu, u culu cacatu a la facci ri chi m'ha struzziatu (dumannatu)

uccellino dal becco giallo, il petto rosso, il culo cagato alla faccia di chi mi ha "costretto a tutti i costi a fare qualcosa" .

Io sbattevo i piedi dalla rabbia perchè mi sentivo raggirato e ingannato, ma ormai la minestra era andata. Alla prossima.

domenica 14 maggio 2006

La paura

"Dall'uomo nero al terrorista - piccolo catalogo delle paure infantili di ieri e di oggi"
di S. Argentieri e P.Carrano

La nostra disciplina usa dire che siamo peggiori di quello che pretendiamo d'essere, ma migliori di quello che crediamo.
In effetti questi livelli inconsci, tanto temuti e ripudiati, in genere non contengono niente di così vergognoso, ma solo le banali, comunissime miserie di ogni essere umano: invidia, gelosia, sentimenti ambivalenti di odio e amore.


Solo leggendo i titoli dei capitoli del libro ho ritrovato un buon campionario delle paure che popolavano la mia infanzia:
la paura senza nome, la paura dei cani, la paura dei mostri (c'era un periodo in cui in televisione davano una serie di film -penso giapponesi- in cui enormi mostri preistorici riapparivano sbucando dalla terra) paura del diavolo, degli spiriti e dei fantasmi, paura del buio.

Nel periodo in cui scrivevo canzoni -ne avevo composto una (penso nel 1973) le cui parole erano:

Apro gli occhi nella notte
guardo nella stanza buia
un ricordo un fantasma
dei miei sogni di bambino.
La paura è ancora viva
e l'angoscia ormai mi assale,
forse il sole domattina,
sarà stanco di apparire.
Forse un vento senza fine
mi trasporterà lontano,
forse sono sempre io,
forse sono sempre io.
...

Ancora, cito dalla prefazione del libro:

...il sintomo della paura è sempre una formazione di compromesso tra il dire e il
non dire - a noi stessi e agli altri - qualcosa che di per sè, finchè non si
sono maturati strumenti psicologici adeguati, fa ancora più paura.

mercoledì 10 maggio 2006

Come conteggiare i voti

Ultimamente fra elezioni politiche e presidenziali è diventato argomento quotidiano confrontare il numero di voti, valutare i testa-a-testa, ipotizzare travasi da uno schieramento all'altro.

I miei sogni non sono rimasti indifferenti a questa "problematica", introducendo una possibile alternativa al modo di conteggiare le preferenze.

Nel mio sogno del 5/5 i due maggiori contendenti italiani dello schieramento politico sono per l'ennesima volta appaiati.
Si aprono le urne per un controllo.
Le urne sono costituite da grandi taniche di plastica bianca che contengono...la pipì degli elettori.

Quindi il meccanismo di voto è questo: ognuno si reca al seggio e svuota la sua vescica nella tanica corrispondente al suo partito.
Al termine si controlla i volume dei liquidi e lo schieramento che ha raccolto più "voti" vince la competizione.

Si capisce subito che un primo stravolgimento del nuovo metodo è che il "peso" di ogni singolo elettore non è uguale; qualcuno influirà di più, qualcuno di meno, dipende...da vari fattori come volume della propria vescica, quantità di liquidi ingeriti nelle ultime ore, data e ora dell'ultimo svuotamento interno, capacità di continenza/incontinenza e altri fattori ancora che potrebbero essere studiati e approfonditi da esperti.

Si apre uno scenario di campagna elettorale estremamente diverso da quello attuale, dove bisognerebbe rivalutare l'importanza delle industrie dell'acqua minerale, delle birre e delle bibite in generale e della farmacologia diuretica.

Inoltre bisogna tener conto degli effetti psicologici: fare la pipì è un atto fortemente liberatorio che richiama ai primi anni della vita, al rapporto con la mamma e con il vasino, probabilmente una diuresi di massa potrebbe avere ripercussioni positive sul benessere interiore dei cittadini.

Purtroppo devo segnalare che il nuovo metodo non è immune da brogli. Infatti nel mio sogno, uno scrutatore, con un movimento maldestro (non doloso) ha provocato uno straripamento dell'orina (pardon dei voti) da una tanica all'altra determinando così un ribaltamento del risultato finale.

domenica 7 maggio 2006

Chi non salta...è

Per quanto ne so io, questa espressione è nata negli stadi del calcio. E' un efficace metodo per rimarcare l'appartenenza a un gruppo e delimitare i confini degli amici e dei nemici.


"Chi non salta rosso-nero è", oppure "...Genoano è" e così via.

Poi questo tipo di slogan l'ho sentito usare nelle manifetsazioni politiche:
"Chi non salta Berlusconi è", oppure "chi non salta comunista è".

Infine il giochino ha preso piede e di salto in salto è stato applicato alle più diverse situazioni.

Il punto fermo è che "Chi non salta...è" presuppone l'esistenza di un tono canzonatorio e di scherno, di avversari che si vogliono escludere da quella manifestazione di gioia.

Tutta questa premessa perchè ieri sera ho partecipato a una festa per giovani organizzata in una parrocchia del mio quartiere, rendendomi conto, per la prima volta, che c'è gente (e gruppi organizzati) che in nome, probabilmente, di una "nuova catechesi", per avvicinarsi al linguaggio dei giovani ha pensato bene di coniare questo slogan:


"Chi non salta non ci crede eh, eh"

Lo so che a volte sono un po' istrionico, ma la mia reazione istintiva è stata gettarmi per terra sdraiato e immobile (e l'ho fatto!) per dissociarmi immediatamente da un'idea così malsana.

Vorrei essere sicuro di essere capito! Si salta e si urla lasciando passare il messaggio che chi non salta non crede in Gesù Cristo.

Ma non dovevamo essere: Portatori di pace? Costruttori di unità? Fautori di dialogo con le altre culture contemporanee? Amare il nemico non è la specialità della casa? I cosìdetti "non credenti" non dovrebbero essere i nostri "preferiti"?

venerdì 5 maggio 2006

Via Valvassore

"Ma lei non abita più in via Valvassore?"

"Già, vero. Non abito più in via Valvassore"... "Però ci posso tornare quando lo desidero".

Come si torna davanti alla casa in cui si è cresciuti;
come si torna al ricordo dei propri genitori per rinnovare la loro immagine interiore;
come si torna dove si è imparato qualcosa su "come si cambia".