venerdì 12 agosto 2005

Figli per sempre

19 Luglio 2005, Marianna e Dario hanno acquistato la loro casa.


Figli per sempre
Ivana Castoldi - Feltrinelli

Prefazione

Dario, sessantadue anni, sposato con figli, arriva in terapia con una strana, ma solo apparentemente strana, richiesta: “Dottoressa, mi aiuti a dialogare con mio padre... non ci sono mai riuscito”. Il padre, novantenne, era morto sei mesi prima.Dario non sapeva darsi pace. Era caduto in uno stato di profonda depressione e si tormentava al pensiero di aver ormai definitivamente perso l’occasione per dire a suo padre quello che da più di quarant’anni gli pesava sul cuore.È possibile tacere a un genitore, per così lungo tempo, pensieri e timori, sentimenti e risentimenti personali, pur desiderando aprirgli il cuore e farlo partecipe del nostro mondo interiore? Quali paure, quali rancori, quale pudore ci trattengono, a mano a mano che cresciamo in età e in consapevolezza, dal mostrare ai nostri genitori le tracce e i postumi della nostra esperienza di figli? A volte, questi esiti somigliano a profondi solchi incisi nella carne come ferite che faticano a rimarginarsi; altre volte, all’impronta di una carezza che ci fa palpitare il cuore di amore e riconoscenza. Non è solo il dolore a far morire le parole sulle labbra, a farci chiudere nell’isolamento; spesso, a inibirci è la nostra incapacità a parlare d’amore e di gratitudine.Con i genitori rimane sempre qualche conto in sospeso: molti segreti non si sveleranno mai; alcuni nodi non si scioglieranno mai e ci peseranno sul cuore per tutta la vita. In effetti, anche se diventando adulti prenderemo fisicamente o simbolicamente congedo dai nostri genitori per conquistare la nostra autonomia, rimarremo dei figli per tutta la vita. Anche quando resteremo orfani; anche quando, a nostra volta, diventeremo genitori.Questo legame viscerale tra genitori e figli è l’unico davvero inscindibile, nonostante tentiamo spesso di negarlo, di reciderlo, di dimenticarlo. Nella nostra esperienza di adulti non c’è “amore eterno” che tenga, al confronto. Il nostro destino di figli è la nostra fortuna e, insieme, la nostra condanna: una fortuna, se avremo potuto godere del calore affettivo e della comprensione dei nostri genitori; una condanna, se il loro atteggiamento insensibile e intransigente ci avrà tarpato le ali.Alcuni momenti particolarmente significativi (momenti di passaggio e di cambiamento per i figli come l’ingresso nei diversi ordini scolastici, l’inizio dell’attività lavorativa, il trasferimento in una casa propria, il matrimonio...) dovrebbero rappresentare altrettante occasioni di rafforzamento del dialogo con i genitori, anziché di conflitto e di incomprensione. È soprattutto l’abbandono della casa paterna, che andrebbe ritualizzato come un traguardo propizio di autonomia acquisita e di definitivo ingresso nel mondo adulto, a trasformarsi spesso in un evento carico di tensioni e diatribe.Quando ci chiudiamo la porta della casa paterna alle spalle per andare incontro al nostro destino di individui emancipati e responsabili, dovremmo poterci avviare con passo leggero, liberi dal peso dei sensi di colpa e delle recriminazioni. Dovremmo potercene andare non per reazione, esasperati dal deludente corso del rapporto con i nostri genitori, ma per un naturale bisogno di espansione e di potenziamento delle nostre risorse.Quanti figli come Dario rimpiangono di non aver avuto un dialogo costruttivo con i loro genitori? Quanti sono diventati degli adulti insicuri, profondamente segnati dalla sfiducia, persuasi del loro scarso valore e incapaci di mettere a frutto le loro doti personali?Altri invece, più fortunati, sostenuti dalla guida sollecita e dall’incoraggiamento di genitori più competenti nel loro ruolo educativo e affettivo, sono riusciti a conseguire una buona consapevolezza delle loro aspirazioni e dei mezzi per realizzarle. Anche questi figli, tuttavia, al momento di lasciare la famiglia, possono sentire il bisogno di ripristinare un dialogo che il pudore dei sentimenti, e delle parole, ha spesso penalizzato. Non c’è solo il silenzio delle ostilità, ma anche quello dell’inibizione, che deriva da un carente apprendimento del linguaggio analogico dell’affettività: quello dei sentimenti e degli slanci del cuore. La comunicazione genitori-figli ha sempre sofferto di un’afasia che riguarda non tanto la parola, quanto le emozioni che l’accompagnano.Pertanto, i figli in procinto di separarsi dalla famiglia d’origine avvertono quasi sempre l’esigenza di effettuare un bilancio del loro rapporto con i genitori, facendo una verifica della loro esperienza di figli.Tutti gli individui fanno il loro ingresso nell’età adulta con un variegato bagaglio di fallimenti e conquiste, di delusioni e speranze, che segnerà inevitabilmente la loro vita futura. Non sempre si ritrovano debitamente equipaggiati per farsene carico in maniera vantaggiosa. Sono ancora troppo invischiati in nodi da sciogliere, in danni da riparare, in dilemmi da chiarire.Rancori e dubbi a lungo covati, domande e bisogni inevasi alimentano legami di dipendenza difficili da risolvere. Per farlo, occorrerebbe finalmente poter stabilire un dialogo aperto, che non tema la crudeltà delle parole e l’inclemenza dei giudizi. Occorrerebbe accettare, in alcuni casi, il rischio di perdersi di vista, almeno temporaneamente, recidendo un vincolo che, in realtà, di affettivo ha conservato ben poco. È possibile ritrovarsi, comunque, magari a distanza di tempo, dopo che il dolore del distacco e la dissolvenza della memoria hanno affinato la nostra comprensione degli eventi, hanno smorzato i risentimenti e risvegliato gli affetti. Molte storie di genitori e figli lo testimoniano.Partendo da queste considerazioni ho voluto raccogliere, attraverso le interviste fatte nel corso di sedute psicoterapiche o di semplici colloqui, le parole di alcuni giovani adulti, che ho riportato nella forma di confessioni-rivelazioni ai genitori. Il materiale è autentico: io l’ho semplicemente ordinato e rielaborato, dandogli una veste un po’ più “letteraria”. Ne deriva un’uniformità di stile di scrittura e di espressione che rende irriconoscibili le “voci” dei singoli personaggi, i quali hanno diritto a un rigoroso anonimato.Credo possa essere utile anche per gli adulti, attraverso le testimonianze proposte, accostarsi all’esperienza di alcuni figli che, malgrado o grazie ai loro genitori, hanno raggiunto una buona consapevolezza di sé e hanno già intravisto la possibile soluzione dei loro problemi. Spero che qualche eco possa valicare i confini dei singoli casi per focalizzare l’attenzione del lettore sulle difficoltà dalle quali nessun rapporto tra genitori e figli è esente. Mi auguro che lo sforzo di raccontarsi e le esperienze di vita dei protagonisti delle diverse storie possano servire da incoraggiamento per altri figli cresciuti, i quali, già con la mano sulla maniglia della porta di casa nell’atto di andarsene, ancora tentennano timorosi, chiedendosi se valga la pena cercare un chiarimento con i genitori per le molte questioni rimaste irrisolte. Questi figli rischiano di lasciarsi alle spalle una voragine di silenzio che non verrà mai più colmata. Il rimpianto può far male più del dolore procurato da un conflitto aperto.Il tema di fondo del libro è quello della conquista dell’autonomia, che ho già trattato al femminile e al maschile in precedenti pubblicazioni. Questa volta è riferito ai giovani che, in maniera molto spesso conflittuale, si trovano a vivere la delicata fase dello svincolo dalla famiglia d’origine.Il superamento della dipendenza dai genitori si configura, in ogni caso, come un processo impegnativo e sofferto, anche se non necessariamente traumatico. In effetti, il rapporto con i genitori non si rivela sempre fallimentare. In diversi casi (ma dovrebbe valere per tutti), rappresenta un fondamento prezioso e determinante agli effetti della maturazione e dell’equilibrio psicologico degli individui. Anche dei successi vale la pena parlare, perché il dialogo tra genitori e figli non si riduca sempre e soltanto a un doloroso e sterile elenco di accuse e recriminazioni.

1 commento :

Anonimo ha detto...

Padre per sempre
(Da : “Ancora una volta ho perso il treno” di Cosmo de La Fuente)

Non so quante siano le donne che in un momento di rabbia dopo la separazione decidano di penalizzare i propri figli danneggiando non solo l’ex coniuge ma anche, e soprattutto, i propri figli. Figli che diventeranno adulti e probabilmente capiranno la violenza a cui sono stati sottoposti. Volenti o nolenti il padre sarà padre per sempre.


La mamma è la persona più importante per un essere umano ma quando scompare un padre che è stato molto presente, una figura dal carattere forte, i figli improvvisamente capiscono che è giunto il loro turno d’incamminarsi lungo la tortuosa strada della vita, da soli. Orfani della sicurezza del proprio genitore e un po’ sbatacchiati nel vivere giornaliero, si avventurano come incerti tigrotti incoraggiati e spinti dalla madre per la prima caccia della loro vita.
Mio padre era un uomo molto attivo, lo ricordo sempre intento a fare qualcosa, mi sembra di rivederlo tanti anni fa in Venezuela intento a tagliare numerosi strati di stoffa per realizzare giacche che poi vendeva ai suoi clienti proprietari di “tiendas” del centro popolare di Caracas. Le enormi forbici nere le conservo ancora, fanno parte di lui, erano il prolungamento della sua mano destra.
Io e mia sorella ringraziamo Dio per averlo avuto durante gli anni della nostra infanzia, il suo amore e la sua protezione ci hanno fatto crescere sani e sicuri, ringraziamo soprattutto nostra mamma che, sebbene anche lei come tutte le madri avesse la possibilità di far valere il suo potere sui figli, non ci ha mai privato dell’amore di nostro padre, dolcissima e intelligente nel capire che l’amore è sempre amore.
Quando papà tornava a casa gli correvamo incontro e buttandogli le braccia al collo urlavamo felici : -papà- anzi, alla venezuelana: - papato-. Se cucinava lui era una festa e il sapore che dava ai piatti era diverso, ci piaceva moltissimo.
Nessuno potrà mai cancellare quei momenti che ha saputo donarci .
Qual è il significato della morte? Non lo conosco, lui è vivo più che mai, presente nelle cose di tutti i giorni e nelle decisioni difficili, riesce sempre a farci giungere un segnale , nascosto in un ricordo, come un intricato rebus da risolvere.
Siamo figli fortunati perché ci è stato concesso di conoscerlo a fondo e di godere dello speciale amore che un padre può dare. Chissà che sogni aveva quando diciottenne emigrò,osservo spesso la foto in cui è su quella nave che lo stava portando in quel paese dove saremmo nati noi.
Mi torna in mente quando andavo in auto con lui per le strade di Caracas, sulla Ford Firline 500 azzurra, prova di aria condizionata, il caldo era soffocante, sentivo l’odore della finta pelle dei sedili sul punto di fondere, lui era sempre assorto nelle guida, chissà a cosa pensava. Dal finestrino osservavo le solite scene di vita venezuelana, tantissimi negozietti d’abbigliamento e cafetines, marciapiedi semi distrutti, tanta gente ferma ai chioschi per un dissetante succo di frutta tropicale o per una empanada, voci, note musicali di salsa e merengue provenienti dalle radio delle altre auto e dagli hi fi transistor che i passanti tenevano in mano. Era curioso vedere tutte quelle persone ondeggiare al ritmo di Cuando salì de Cuba, la bellissima canzone di Celia Cruz.
Come vorrei rivedere il mio genitore scomparso mentre si arrampica sulla palma di cocco in spiaggia, - com’è forte il mio papà, sembra spider man – pensavo, quando ritornava giù era tutto graffiato nelle gambe ma cercava il mio sguardo per godersene l’ammirazione.


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