martedì 21 febbraio 2006

Non credo che bisogna arrivare alla sua età

Mentre scrivevo il post "la pensione e l'ansia" avevo in mente un dialogo ben preciso tratto dal film "L'uomo che sussurrava ai cavalli" , che mi aveva colpito e che ricordavo molto pertinente, eccolo.

Annie: (rivolgendosi a Tom)
"Invidio sua madre, davvero. Dev'essere fantastico avere la sua età.
Trovarsi a quel punto della vita in cui non devi più procedere a tentoni.
La decisioni impossibili non vanno più prese e comunque non importa perchè tutte
le ansie, le scelte sbagliate che hai fatto, ti sono tanto care e tanto preziose, quanto le cose che hai fatto bene, io...ah!, dev'essere un grande sollievo, che senso di pace deve dare."
Tom, risponde:
"Non credo che bisogna arrivare alla sua età per trovare quel senso di pace."
"Ma uno come fa a saperlo, a meno che non abbia tutto alle spalle. Lei ce l'ha?."
"Qualche volta, non sempre ma qualche volta sì."
"Quando?"
"Quando mi sveglio nel ranch la mattina, sapendo quello che devo fare quel giorno, sapendo di essere a casa."

Il Mostro

(Sogno del 20/2)

L’orrenda creatura, penetrava nell’edificio abbattendo mobili, specchi e tramezze come se fossero fatti di polistirolo. La sua furia era implacabile. Come si poteva arginare quell’avanzata senza armi? Cosa serviva accatastare oggetti davanti alle porte per ostacolare la sua avanzata se era in grado di abbattere un muro di mattoni con pochi colpi? Alto oltre due metri, con un grugno vagamente umanoide, ricoperto di peli, sembrava la brutta copia di un mostro da un film fantasy.

Nella continua ritirata di stanza in stanza, lo si poteva vedere in azione attraverso il cortile interno. Prima al piano di sotto, poi nell’ala di fronte: dietro di lui solo macerie.
Una stanza con le armature medioevali, poteva essere l’ultima disperata difesa: le lame rotanti, gli elmi e i corpetti luccicanti, le catene con le mazze appuntite.

Ma è un’illusione di un attimo; ormai è troppo tardi, bisogna sgombrare in fretta: le colonne portanti e i tetti crollano sotto i colpi senza tregua del brutale ominide.

Pochi minuti dopo, riparato da quel che rimaneva in piedi di una parete, guardavo l’inquieta creatura dimenarsi nella spiaggia sassosa, ancora affamata di distruzione, in cerca di altro materiale su cui placare la sua distruttività.

Ora non ho più niente, nessuna idea, nessun mezzo per contrastarlo.
Accanto a me brandelli di carne attaccati ad un osso di un grosso animale abbattuto; senza pensare al perché, senza riflettere sulle conseguenze di un gesto che mi avrebbe messo allo scoperto e avrebbe potuto attirare l’attenzione del mostro verso di me, scaglio con tutte le mie forze quell’avanzo, verso di lui.
La mira è sbagliata, il bersaglio mancato; l’osso e quello che ci rimane attaccato finiscono nell’acqua.

Il bestione, alza lo sguardo vede la traiettoria, forse sente l’odore di un possibile pasto, allora si tuffa, all’inseguimento della sua improvvisa selvaggina. Uno spruzzo d’acqua gigantesco, contemporaneo al tonfo del suo impatto con l’acqua, un tramestio, un dimenarsi scomposto.
Il silenzio.
Sulla superficie del mare ritornata piatta, non c’è più nulla.
Il mostro è stato inghiottito. Non sapeva nuotare e non sapeva valutare il pericolo, è annegato.
Proprio quando non sapevo più cosa fare, la soluzione è arrivata quasi da sola.
Quasi.

Prima ho pensato che questo sogno fosse un segnale interiore di questo tipo: "Vedi? Quando tutto sembra perduto, non bisogna disperare; bisogna lasciarsi andare perchè da qualche parte le capacità per sconfiggere i mostri della vita ci sono".
Poi però ho pensato: "Chi è il mostro del sogno?"
Oh, oh! Ma sono io!
Ma sì, più ci penso più me ne convinco: sono io; quella parte di me che vorrebbe risolvere tutte le controversie e gli intralci, abbattendoli!
Sai che la prospettiva cambia?
In fondo non era mica così cattivo quel mostro! Anzi direi che casomai era un po' imbranato, con quel suo dimenarsi continuo, senza una reale strategia di malvagità, capace solo di fare un po' di confusione e danni. Sembra il lupo cattivo della fiaba di cappuccetto rosso, quello che ingoia le sue vittime senza masticarle così che il cacciatore può estrarre dalla sua pancia sane e salve bimba e nonna.
In fondo bastava solo lasciargli lo spazio necessario a sfogarsi e poi basta una polpetta per farlo ritornare negli abissi.

lunedì 20 febbraio 2006

La pensione e l'ansia

Quando penso alla pensione mi viene l'ansia, o forse... quando sono in ansia penso alla pensione.

Ci sono tanti motivi oggettivi e razionali per farsi venire l'ansia pensando alla pensione.
Penso di non essere il solo!

Ci saranno i soldi nelle casse dello Stato? Quanti anni mancano? Dodici o tredici. No bisogna tener conto che c'è il limite dei sessantacinque anni...e converrà andare con trentacinque anni di contributi...o meglio aspettare i quaranta?
Per l'ennesima volta mi rammarico per non aver riscattato gli anni di università...e i conteggi dell'INPS quando arrivano?
Faccio e rifaccio calcoli che sono sempre gli stessi e idealizzo il momento in cui potrò dedicarmi totalmente ai miei hobby: la musica, a quelli che non ho mai saputo coltivare: il ballo, ai viaggi d'arte nelle regioni d'Italia, ad iscrivermi alla facoltà di Fisica. Non ci sarà tempo per annoiarsi, e finalmente non dovrò più preoccuparmi se l' azienda in cui lavoro verrà venduta al miglior offerente straniero, se andrà in fallimento perchè la globalizzazione l'ha divorata, a cosa potrebbe succedere se dovessi perdere il posto di lavoro alla mia età...

In realtà a non accontentarsi delle apparenze, c'è un'altra prospettiva, un'altra visuale che pur non escludendo la prima, apre la strada ad altre considerazioni.

Voglio dire che quando al lavoro sono in difficoltà, e i motivi possono essere diversi: non riesco a far apprezzare una mia idea al mio capo; c'è una procedura di software che si ostina a non funzionare correttamente provocando malumori e risentimenti per tempi prolungati; mi sembra di non riuscire a domare i caratteri del mio gruppo di lavoro... è allora che l'idea della pensione diventa una strategia di fuga, un modo per smettere di affrontare la realtà, per rifugiarsi in un futuro inafferrabile su cui scaricare l'ansia o la crisi di panico.

In questi casi ho bisogno di fermarmi, di rientrare in me stesso. Qualche volta bastano poche ore o un'intensa nuotata in piscina al contatto con l'acqua, ma altre volte ci vuole pazienza, occorre ruminare un po', lasciar sedimentare il vortice dei pensieri, ammettere di non essere così bravo da saper dominare tutte le situazioni.
Lasciare che i propri pensieri non si incaponiscano a cercare una via d'uscita a tutti i costi, togliersi dalla spiacevole sensazione di essere una vittima, di essere nel centro di un ciclone...

Finchè un seme, un'idea nuova (sempre saputa) emerge con convinzione crescente.

Perchè mai bisognerebbe aspettare dodici anni per essere felici?
Mi viene allora una certezza: che in realtà se non troverò la strada della "felicità" oggi, non la troverò neppure domani.
Che sto mettendo il mio benessere in mano ad altri, facendolo dipendere da fattori esterni.
"Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete; né per il vostro corpo, come lo vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito. ...Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? Se dunque non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto? ... Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l'animo in ansia... ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno."

Non credo che sia un Padre lontano oltre i Cieli, e certamente non è solo l'eco del padre che mi ha generato e cresciuto e trasmesso le sue certezze, è una parte di me, è come dire "la soluzione è dentro di te! Ascoltati!"
C'è un Padre dentro di me, che sa cosa occorre e che ogni giorno impararo ad ascoltare!

venerdì 17 febbraio 2006

"Come stai?"

Sembra un incubo, ma non è un sogno...

C'è stato un periodo in cui quando qualcuno mi chiedeva "Come stai?" l'unica risposta possibile era "Benissimo", accompagnato da un sorriro a trentadue denti.
Ogni altra formula che palesasse una qualsiasi incertezza era considerata segno di un problema "spirituale".
Rispondere "così così" era l'orlo del baratro.
Ma anche solo accontentarsi di un "...bene" era il segno di una mancanza di Amore che andava approfondita e corretta e si veniva subito richiamati "...e perchè non benissimo?".

Si doveva "testimoniare" che un buon cristiano è felice, ma intendiamoci: non felice "per finta", doveva essere felice per davvero.
E se tu in quel momento non ti sentivi felice?
Era lo stesso dovevi fare una "divina commedia".
Ripenso a quegli anni come la paranoia dell'amore, lo stalinismo della religione, il manganello della santità!

Ho impiegato parecchio tempo per disintossicarmi, per ritornare alla comune "infelicità" di tutti gli uomini, per riconsiderare l' "essere normali", come la normalità.

Pochi sanno oggi cogliere la mia felicità e il mio senso di liberazione quando, alla domanda "Come stai?", rispondo:
"Oggi non tanto bene, sono un po' in ansia".
Può anche essere che io risponda "Benissimo" allora dipende:
se chi ho davanti è un amico, sicuramente è la verità, ma in questo caso è più probabile che io usi altre espressioni;
oppure se non è un amico o se si tratta di una situazione formale vuol dire che alzo un muro, che in realtà non voglio comunicare quello che provo.

...Allora attenzione alla mia risposta la prossima volta che mi chiedi "Come stai?"

domenica 12 febbraio 2006

Un impegno serale

(Sogno 11/2)

Quando esco di casa è gia buio, le strade del quartiere si sono rapidamente svuotate e ora sono deserte. I muri sono tristemente illuminati dalle luci giallognole dell'illuminazione pubblica, le già rade vetrine dei negozi, sostituite da sportelli bancari e super-discount, sono irrimediabilmente scure.
Prima di arrivare alla mia meta, vorrei mangiare qualcosa, sono uscito di corsa perchè mi sembrava di essere in ritardo e non ho avuto tempo di prepararmi la cena.
Inaspettatamente trovo un piccolo bar aperto. Più che un bar, sembra una di quelle latterie stile anni sessanta, con l'insegna bianca, un vecchio bancone.
Entro; in un ristrettissimo spazio tra una vetrinetta semideserta di formaggi e i biscotti per la colazione, mi affaccio verso il negoziante e ordino un toast e, per favore, anche un succo di frutta, alla pera, se c'è.
Mentre attendo la cottura, la piastra probabilmente era fredda, entra un altro avventore e poi un altro ancora. Chissà da dove spunta tutta questa gente, poco fa nella via non c'era assolutamente nessuno.
Poi capisco che hanno la mia stessa meta, il teatrino è ormai a pochi passi e fra poco comincia lo spettacolo di un famoso comico.
Quando si apre il sipario sono seduto in una platea semivuota.
Poi evidentemente devo aver pensato di avvicinarmi perchè mi ritrovo proprio sotto il palco, oltre la prima fila con un foglio in mano proprio a ridosso dell'attore, come se fossi il regista.
Mi accorgo che nella concentrazione e immedesimazione dello spettacolo mi sono messo in una posizione troppo visibile, troppo esposto, sia verso il palco sia verso gli spettatori. Allora, come se ritornassi alla realtà, mi faccio un po' da parte, muovendomi con la mia sedia in una zona più in penombra.
Ora il teatro, dalla mia posizione posso vedere l'intera platea, è pieno di gente.
Qualcuno avvicina una sedia alla mia e si accosta. E' una donna, sembra interessata a me. "Ci sta provando" mi dico. Verrà tutti i giorni a cercarmi all'uscita del lavoro, dovrò uscire dall'uscita secondaria per liberarmi di lei.

sabato 11 febbraio 2006

Vuoi ballare con me?

Ho ancora negli occhi l’esibizione di Tango al “Senor Tango” di Buenos Aires; col desiderio di fissare nel ricordo quelle immagini, ho acquistato, in un negozio di Avenida Florida, un DVD, che contiene uno spettacolo sulla storia del Tango e anche delle lezioni con i passi fondamentali.
Io però devo ammettere, ma non ho il coraggio di scriverlo, che non so ballare e, ad essere veramente sinceri, me ne vergogno un po’.

Ballare rimane, nei sogni da realizzare, un obiettivo ad alta priorità, così come suonare con una banda musicale.
Ora però mi riprendo un po’ perché in realtà sento il ritmo dentro e prima o dopo questo diaframma cadrà, come ne sono caduti tanti altri.

Mi sono ricordato del film “Shall we dance?” con Richard Gere.
Probabilmente non sarà mai annoverato fra i capolavori del cinema, comunque mi aveva emozionato perché “la danza” era la metafora a un nuovo approccio alla vita.
Un evento unico, imprevedibile, sul quale spendere in prima persona energie, risorse, tempo, soldi, con costanza, con pazienza; una specie di psicoterapia nella quale l’insegnante sembra fare la parte dell’analista.
Un tramite, un lungo passaggio, che non ha lo scopo di fermarsi su se stessi, ma che ad un certo punto, si apre, finisce, coinvolge gli affetti di sempre, li incastona in una rinnovata visione dell’esistenza.

….A questo punto devo raccontare la trama….

John Clark è un avvocato di Chicago consapevole che la sua vita è quasi perfetta. Ama la bella moglie, ha ottenuto successo nel lavoro e ha due figli meravigliosi. Eppure la giornata lavorativa segue sempre la stessa routine, il viaggio di andata e ritorno è estenuante e c’è sempre troppo da fare per godersi la famiglia.

Talvolta John si domanda se è tutto qui, fino a che una sera, mentre sta tornando a casa dal lavoro, scende dal treno e fa una cosa impensabile.
Da tempo intravedeva, passando con il treno, una bella ragazza che guardava fuori da una finestra.
Incuriosito, e attratto da lei, Clark decide di visitare la scuola e finisce per iscriversi al corso per principianti.

Improvvisamente si ritrova in un mondo completamente nuovo, un mondo di fisicità, musica, solidarietà e passione. Quest’uomo molto serio diventa un’abile ballerino, nella sua vita, finalmente dopo tanto tempo, trova interesse a qualcosa. Si sente di nuovo vivo, ora ha nuovamente uno scopo nelle sue giornate.

Ma per quanto gli piaccia ballare, non trova il coraggio di raccontare alla moglie cosa fa ogni mercoledì sera. E lei si convince che il marito abbia un'amante...Ma la bella insegnante di danza è solo un incentivo a riscoprire il suo amore per la moglie, la sua voglia di felicità, la sua propensione a non accontentarsi mai, a volere sempre qualcosa in più.
Ed arriva il giorno della separazione la sua insegnante parte per l’Europa, ma lui ha ormai acquisito il segreto, può continuare la strada con la sua famiglia.

domenica 5 febbraio 2006

L'amore al tempo del colera

Non mi stupisce che il mio post "Racconto di un fidanzamento" ricordi , "L'amore ai tempi del colera" di G.Garcia Marquez, anche se il romanzo l'ho letto per la prima volta solo in questi giorni.
E' che già dalle prime parole c'è una atmosfera familiare:
"Era inevitabile: l'odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati"; siamo nella Colombia del periodo a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento ma per certi aspetti potrebbe benissimo essere la Sicilia del dopoguerra.

Florentino Ariza ha dovuto aspettare 53 anni, 7 mesi e 11 giorni per coronare il sogno d'amore con Firmina Daza, ad un'età, ben oltre i settant'anni, nella quale "i vecchi dovrebbero ormai aspettare la morte".
Mi sono chiesto se, quello del libro, è un finale a lieto fine.
Ma mia risposta istintiva è stata, No!
No, perchè alle spalle ci sono cinquant'anni di vita; da una parte quella di Florentino Ariza riempita di infinite relazioni amorose clandestine, di meschinità, di debolezze, di frustrazioni, ma anche di una tenacia senza sosta; dall'altra parte quella di Firmina, sposa senza amore con un ragazzo innamorato di lei, pieno di risorse, di idee, di capacità.
Amore che col tempo nasce e cresce, intenso e accogliente, pur tra crisi profonde che sembrano insanabili e definitive, e dove la consuetudine non riesce a soffocare mai la personalità. Un amore interrotto dalla morte del marito, vissuta prima con rabbia e rancore e poi con serena consapevolezza della nuova condizione di vedova .

E anche se tutto sembra dire che la parabola della vita è alla fine, nel futuro di entrambi c'è invece spazio per la passione; non è l'amore orfano dei ricordi giovanili, è una nuova tenera storia, "entrambi furono abbastanza lucidi da rendersi conto, in uno stesso istante fugace, che nessuna delle due era la mano che avevano immaginato prima di toccarsi, bensì due mani dalle ossa vecchie".
Una storia che a dispetto del tempo ha bisogno di alimentarsi sulla speranza del futuro:
"-Fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del cazzo?- gli domandò il capitano del battello. Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatre anni sette mesi e undici giorni, notti comprese. -Per tutta la vita- disse".

sabato 4 febbraio 2006

Baires

Non c'è città come BuenosAires che possa raccontare storie sul "come si cambia".
Già sceso dall'aereoporto ti rendi conto di essere in una città diversa dal resto del SudAmerica.
E' che, le persone che incroci, hanno subito qualcosa di familiare nei tratti; potrebbero essere un lontano zio dei tuoi genitori, come una cugina con cui hai giocato due o tre volte quando avevi sei anni, prima che partisse per l'Argentina; è che i capelli biondi e le lentiggini ti ricordano i tedeschi che vengono in vacanza nella riviera, le carnagioni abbronzate hanno i tratti degli spagnoli.
Ti senti subito poco straniero e provi a immaginare il percorso di tutte quelle vite che hanno dovuto compiere questo balzo dall'altra parte dell'oceano per ricominciare una vita. Nella città capisci che per molti è stato un salto in avanti, impiegati che vanno al lavoro con le loro valigette portadocumenti, commercianti con attività ben avviate; per altri la miseria ha solo cambiato nome. E ti sembra di riconoscere in alcuni il portamento di chi una stabilità economica l'aveva raggiunta ma le recenti crisi l'hanno travolta. Laureati lasciati senza lavoro dalle multinazionali che chiudono i battenti, che per l'età e la specializzazione non riescono più a inserirsi nel mondo del lavoro, che vagano per anni tra colloqui sempre più radi, con il loro aspetto sempre più trasandato e infine in questa discesa sociale si ritrovano a fare i "cartoneros", versione sucida e indegna del riclico di cartone e carta, raccolti a mani nude nei sacchi di spazzatura; o famiglie di indio, illuse dal miraggio della capitale che vivono accampati all'ombra delle impalcature per la ristrutturazione del teatro lirico di Colon; o giovani e anziani che per sbarcare il lunario, ti offrono, ad ogni incrocio della Avenida Floreale, piccoli depliant che pubblicizzano ogni tipo di negozio.
Poi si capisce c'è anche il Tango, struggente e sensuale, nelle strade e nei locali; la carne delle "estancias" argentine: l' asado, i medalliones, la parilla; ci sono i grattacieli di vetro disegnati da fantasiosi architetti, c'è l'immenso Rio de la Plata; c'è la febbre per il gioco del calcio, c'è la bandiera argentina, la mano nel cuore del patriottismo. Ma tutto questo fa parte di un'altra Argentina.