lunedì 27 giugno 2005

L’abbandono degli abbandoni

Il Bambino entrò nella Favola. Non ci fu bisogno di alcuna magia, formula o concentrazione, semplicemente entrò.
Si potrebbe addirittura pensare che la cosa è semplicemente scontata se non fosse che al Bambino erano occorsi anni e anni per acquisire questa capacità.

Ora era di nuovo lì, dentro la Favola.

Il Re gli sorrise, vestito con i suoi abiti solenni con tanto di mantello e corona in testa.
Il suo sguardo era sicuro, forte ma non aggressivo, era un condottiero non un tiranno.

Il Re, dalle pareti della sfera opaca che aleggiava nell’aria proprio lì davanti a lui, lo osservava, gli sorrideva e con la sua mano lo invitava a guardare oltre. Dietro la sua figura si mise a fuoco la grande stanza del castello, le grandiose finestre che lasciavano filtrare la luce verde dei monti sullo sfondo, gli specchi che moltiplicavano la profondità delle pareti, i tappeti ricchi di colori e ornati di disegni fantasiosi, e proprio al centro della stanza, il Bambino vide la famiglia del Re: La regina, i Principi, le Principesse, allineati uno a fianco all’altro in ordine sparso, guardavano proprio lui e sapevano di essere a loro volta osservati.

“Vieni” indicava la mano del Re, ed era proprio quello che il Bambino aspettava di sentirsi dire, nient’altro aspettava da anni che far parte di quella famiglia, sapeva che fra loro sarebbe stato il suo posto.
“Vieni” significava un tuffo al cuore, l’emozione di riunirsi a chi si ama.

Il turbine lo sfiorò appena e lui cominciò a muoversi nella stessa direzione, prima lentamente come sui bordi di un corso d’acqua dove l’acqua sembra impigrirsi gigioneggiando tra i sassi e il muschio.
Ma una forza lenta e inesorabile cominciò a trascinarlo all’interno, come in un ottovolante che prende velocità come un delle trombe d’aria che qualche volta aveva visto correre sulla superficie del mare, come quelle animazioni che raffiguravano quegli strani oggetti spaziali chiamati buchi neri.
Senza più un orientamento, senza più equilibrio, senza il tempo di lasciar scorrere la paura, ora si ritrovava dentro una enorme caverna dominata da una diffusa luce rossastra.
Lui sospeso un po’ in alto poteva osservare la folla di disperati che sembravano affannarsi, sudare e imprecare mentre con lunghe pale versavano carbone e polvere nelle bocche rosse di gigantesche fornaci.

Che quella fosse la sala macchine del motore del mondo dove gli infelici non trovano pace, in fondo non gli interessava granché.
La visione durò solo pochi istanti poi il Bambino si ritrovò al punto di partenza, senza la sfera opaca, senza il Re, fuori dalla Favola.

Rimase un po’ a testa bassa, il suo viso era triste e accigliato e un forte senso di delusione lo minacciava; veramente era tornato al punto di partenza? Veramente si erano cancellate d’un colpo tutte le speranze e le certezze che stava costruendo?
Gli sembrava di essere abbandonato a se stesso.

Abbandonato? Quanti abbandoni aveva vissuto il Bambino?
Quanti anni può avere un bambino per accumulare un grande numero di abbandoni? Ma su, che domanda, nelle Favole il tempo è una fisarmonica, lo sanno anche i bambini: otto anni possono racchiudere una vita e una vita può dilatarsi quasi all’infinito dove esiste quel diaframma che separa il Qui e il Là.

Il Bambino si domandava cosa fosse andato storto. Lì vicino alla meta una anomalia nel vortice l’aveva portato lontano ed ora i ricordi dei suoi abbandoni gli passavano nella mente come una giostra che ripropone all’infinito la sua tiritera.

“Abbandonare gli abbandoni”, qualcosa lo spingeva a ripetere dentro di se questa intuizione, “abbandonare gli abbandoni”.
Era troppo presto per capire il significato, ma almeno adesso aveva riacquistato la consapevolezza di non essere al punto di partenza, che la Favola era ancora lì e con quella facilità che aveva ormai appreso da un po’ di tempo poteva in ogni momento decidere di rientrare.
Decise di farlo e il Bambino entrò ancora una volta nella Favola.

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